Quella che segue è la recensione non di un romanzo ma di una prosa, non di una storia ma delle parole con cui è raccontata, e non di un libro, quindi, ma di chi l’ha scritto. Perché in Centomilioni dell’esordiente Marta Cai, pubblicato da Einaudi e finalista al Premio Campiello, non succede quasi niente, se non l’incontro con una lingua robusta, ingegnosa e molto bella. E la scoperta di questa lingua converte la lettura, che si preannunciava rapidissima (parliamo di centotrenta pagine), in un’indagine su come il niente possa diventare quasi troppo: le ore, così, si dilatano, diventano giorni di ricerca, e Centomilioni finisce per evocare quel misto di incredulità, vergogna ed eccitazione che si avverte quando ci perdiamo su una strada sempre familiare e dritta, che credevamo conducesse a casa. E invece.  

Qui, a gioire del proprio smarrimento, prima ancora del lettore, è Teresa, un’insegnante di mezza età che odia segretamente la propria madre e altrettanto segretamente ama un suo ex studente, Alessandro. La vita di Teresa scorre fra notti insonni e pasti troppo abbondanti, fra gli sbadigli dei suoi allievi e le pretese degli anziani genitori, fra un pacchetto di sigarette – «perché voglio ammalarmi e morire presto, prestissimo, o almeno stare tanto in ospedale» – e un caffè «normale, normalissimo, senza niente di niente, né lungo né ristretto, un caffè che arrechi il minor disturbo possibile».

Il talento descrittivo di Marta Cai somiglia a quello dei bravi comici e cioè dei grandi osservatori

La frustrazione e il desiderio autodistruttivo di Teresa sono alimentati soprattutto dalla signora Maria, sua madre, la cui pedanteria travalica la pagina con una vividezza che ricorda certe belle e insopportabili invenzioni di Jonathan Franzen. E a proposito di vividezza: il talento descrittivo di Marta Cai somiglia a quello dei bravi comici e cioè dei grandi osservatori, che sanno cosa ammucchiamo nel cassetto delle medicine e prima di tutti intercettano gli intercalari che contraddistinguono una generazione, un carattere, una classe sociale. Teresa si muove in questo realismo trasparente, per noi familiarissimo, come una mosca intrappolata in macchina, che sbatte qua e là da un vetro all’altro, lunotto, specchietto, parabrezza, per poi fermarsi, esausta, sul finestrino, a cui un pomeriggio bussa proprio Alessandro. Che, come in un sogno, le scrive il suo numero di telefono su un tovagliolo e le dice «Chiamami».

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