Come ha fatto Wes Anderson a finire in un museo? La Fondazione Prada di Milano, dove già esiste un bar da lui progettato (il Bar Luce, non dissimile dai locali rétro che spuntano come funghi in una zona ex industriale), ospita la sua seconda mostra in pochi anni. Dopo la Wunderkammer di Il Sarcofago di Spitzmaus e altri tesori del 2019, ecco Asteroid City: Exhibition, dedicata a costumi e oggetti di scena del suo ultimo e omonimo film per le sale, che esce ora in Italia.

Ai tempi di Rushmore (1998) e dei Tenenbaum (2001) nessuno poteva immaginare che a Wes Anderson sarebbe toccata una promozione di questo tipo. Certo, grazie ai due film citati si era affermato (all’estero prima che da noi: la fama italiana di Anderson inizia con I Tenenbaum) come uno dei registi più interessanti e riconoscibili di un cinema indie che usciva dal postmoderno, e per cui venne usato l’aggettivo quirkQuirk significava bizzarro, ludico, idiosincratico, ma c’era di più: i film di Anderson non erano un collage di citazioni cinefile. Non escludevano pathos ed emozioni, al contrario; parlavano di cose vere – il passaggio da infanzia ad adolescenza in vista di un’irraggiungibile maturità, i primi e gli ultimi amori, l’incapacità di affrontare i sentimenti, la morte e l’elaborazione del lutto, le costrizioni della famiglia. E avevano un look immediatamente riconoscibile: inquadrature simmetriche e ironicamente statiche costruite secondo la prospettiva centrale; colori primari; definizione maniacale delle scenografie e ruolo narrativo degli oggetti di scena; divisione del racconto in capitoli, alla ricerca di una letterarizzazione del testo cinematografico. Tutte cose bellissime e immediatamente accattivanti: ma nessuno, allora, pensava che c’entrassero con l’Arte, intesa come “quella cosa che si vede nei musei”.

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