«’O Famo strano? Famolo» è una battuta di un film di Carlo Verdone, Viaggi di Nozze, in cui Ivano e Jessica, una giovane coppia interpretata dallo stesso Verdone e da Claudia Gerini, cerca di arricchire esteticamente la propria esistenza con pratiche che confondono lo straniamento artistico con trovate e messe in scena puerili, eclatanti e da fotoromanzo. La frase ha avuto una inaspettata fortuna nella critica di architettura – sia pure nelle sue manifestazioni informali – e oggi è usata e abusata ogni volta che si voglia mettere in luce l’arbitrarietà di scelte architettoniche cafone ed eclatanti, soprattutto quelle che derivano da impostazioni decostruttiviste e parametriche, dove volumi e piani sono oggetto di deformazioni appariscenti e arbitrarie, sperimentate solo per il gusto di stupire con la loro stranezza.

A questo stigma non sfugge la quasi generalità della produzione dello studio Hadid, soprattutto la più recente. Che, invece, sarebbe più interessante leggere come proiettata verso una ricerca tesa alla valorizzazione della componente autonoma del processo progettuale. Se così fosse dovremmo prendere in considerazione il fatto che la progettista anglo-irachena e il suo socio e continuatore Patrik Schumacher, pur essendo poco amati dai critici che si auto-immaginano colti perché predicano l’appropriatezza, non sono molto diversi da altri personaggi quali Peter Eisenman che, invece, sono osannati dagli stessi critici per un approccio architettonico snob e sofisticato e pertanto giudicato antitetico al “famolo strano”.

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