Perché gli Oscar suscitano tanto interesse, tifo, aspettativa e voglia di commenti? Evidentemente tali reazioni sono il sintomo di un bisogno di conferma identitaria. Ci piace che qualcuno ratifichi e premi ciò che ci piace, perché così premia anche noi. E poco importa che la ratifica venga da un’autorità dubbia e contestabile: l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences è pur sempre un’autorità. Anatomia di una caduta è un film serio e senza compromessi spettacolari di una regista per nulla hollywoodiana come Justine Triet: ma io, critico serio o spettatore impegnato, gioisco ugualmente se ottiene delle nominations. E se Hollywood alla fine decide di premiarla (in questo caso per la sceneggiatura originale: un premio che spesso è stato attribuito con una certa lungimiranza, anche se tanti film di Rossellini, Fellini e Petri non sono andati oltre la nomination), gioisco ancora di più. Ovviamente, nel caso in cui il film da noi amato non vinca, la sconfitta è un altro tipo di conferma. Martin Scorsese, malgrado le dieci nominations di Killers of the Flower Moon, ancora una volta è stato ignorato: vergogna! Ma è giusto così. È la prova che Hollywood non capisce niente, che non si merita uno come Scorsese, e noi cinefili ce lo dobbiamo tenere ancora più stretto. A parte sta il tifo patriottico per il film italiano eventualmente candidato nella categoria “miglior film internazionale”: un tifo che si fa a prescindere, ed è il più ridicolo di tutti, come è ridicola la categoria in cui vengono relegati film dai vari angoli del pianeta che più diversi non potrebbero essere. 

Nel caso degli Oscar, il numero dei votanti e l’anonimato rendono i premi, se non più attendibili, quantomeno più interessanti, perché indicativi di un’immagine e di un’autorappresentazione del cinema globale

Ma Hollywood chi? si potrebbe dire. Chi vota? Non solo i produttori che vivono in California, indifferenti alle ragioni di arte e cultura, ma anche un parterre globale di candidati del passato e di membri cooptati dall’Academy, che pare discretamente rappresentativo. Sono più di diecimila. Nel caso dei premi dei grandi festival, attribuiti da giurie spesso scelte secondo criteri non meritocratici (l’attrice carina che ha fatto tre film, probabilmente non ne sa molto di cinema ma serve per il red carpet; il rappresentante di un paese non occidentale che si batterà per i film non occidentali…), le dinamiche che portano a una Palma o a un Leone sono quasi sempre trasparenti: a cominciare dal compromesso e dall’aurea mediocritas. Nel caso degli Oscar, il numero dei votanti e l’anonimato rendono i premi, se non più attendibili, quantomeno più interessanti, perché indicativi di un’immagine e di un’autorappresentazione del cinema globale. Vero che ogni tanto ci sono Oscar che non significano niente (chi ricorda il miglior film del 2022 alzi la mano: trattasi di CODA – I segni del cuore, di Sian Heder), ma nell’ultimo decennio è evidente una tendenza, che non è legata ai fantomatici temi unificanti che piacciono tanto ai media (questo è l’anno della memoria! Questo è l’anno delle donne!) quanto a strategie trasversali.

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