Molto si continuerà a dire sul libro postumo di Michela Murgia Dare la vita, uscito da Rizzoli per la cura meritoria di Alessandro Giammei. Le circa ottanta pagine del libro raccolgono una serie di interventi e considerazioni sparse sulla maternità, la gravidanza, la gestazione per altri, la famiglia queer. Il primo messaggio politico di Dare la vita (che si fa inscindibile dalla questione civile che Murgia mette a tema) è la proposta di regolamentare meccaniche relazionali non ancora legittimate dal diritto nazionale, ma gestite attraverso la pura logica extralegale del mercato, a completo arbitrio della fascia abbiente (e potente) della popolazione. Ma non è di questo che qui conviene parlare, né delle questioni più tecniche legate alla genesi del volume, su cui spendo solo un paio di frasi. A sottolineare la coerenza dell’autrice nelle sue posizioni pubbliche, nella prima parte troviamo riflessioni stese (e dettate) quasi in limine mortis, a luglio e inizio agosto 2023, nella seconda, invece, scritti che risalgono fino al 2008, rielaborando testi già pubblicati in misura assai difficile da definire. Se infatti, com’è giusto che sia, alcuni vecchi scritti sono confluiti in questo volume diventando un’opera nuova, la mancanza di qualsiasi apparato genetico e la vaghezza della nota di curatela di Giammei (per il resto commovente, limpida, necessaria) non consentono alcuna contestualizzazione a chi non abbia memoria delle prime versioni o non sia presente sui social network. 

Il senso del nostro essere qui, in “Dare la vita,” è nella ricerca della nostra realizzazione e nella capacità di trovare in nient’altro che noi stessi la felicità

Mi preme piuttosto riflettere sull’antropologia sottostante le riflessioni di Murgia (e in esteso, non solo la sua saggistica, ma la sua intera parabola letteraria e civile), nella convinzione che discutere le idee sia l’unico modo di tenerle in vita, mentre è il contrario della memoria, e del lavoro intellettuale, schierarsi pro o contro di esse: un atteggiamento che Murgia, principalmente suo malgrado, anche a causa della logica mediale pro-contro dei social network, ha finito per suscitare nella comunità dei destinatari. Nella nota di curatela Giammei osserva che Murgia «alla maternità, alle vie biologiche e d’anima su cui corrono i rami della filiazione, ha dedicato in fondo tutta la propria esistenza relazionale, intellettuale». Mi sembra che dietro questo aspetto se ne mostri uno altrettanto vasto e onnipresente: il principio di autodeterminazione assoluta, svincolato da qualsiasi norma sovrapersonale, estendibile a ogni campo – anche linguistico – della vita. Il senso del nostro essere qui, in Dare la vita, è nella ricerca della nostra realizzazione e nella capacità di trovare in nient’altro che noi stessi la felicità. La chiarezza di Murgia a riguardo è ammirevole: «Tuttə vogliamo essere liberə, perché solo dentro alla più completa libertà è possibile esercitare la più stabile delle responsabilità». E ancora, la queerness è «la scelta di abitare sulla soglia delle identità (intesa come maschera di rivelazione di sé), accettando di esprimere di volta in volta quella che si desidera e che promette di condurre alla più autentica felicità relazionale»: uno stato di transitorietà costitutiva che scardina le normatività patriarcali nel segno di quella che nel romanzo Chirú veniva chiamata «autarchia del cuore». Rientrano in questa estensione del potere autodeterminativo a ogni aspetto dell’esistenza le idee sulla decrescita demografica; la visione reattiva, polemica e personalizzante della genitorialità (sulla linea del suo stile saggistico così instant e circolare sul piano retorico: sdegno concreto-formulazione tesi-giustificazione teorica collettiva dello sdegno personale); l’equazione famiglia-mafia mutuata da una posizione di Saviano, con la manipolazione del concetto di «familismo amorale» di Banfield e Fasano (al quale inoltre, va notato, Murgia non vuole opporre nessuna idea di “familismo morale”).

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© Ivan Lopatin

Le mie perplessità su questa Weltanschauung nascono da una parziale adesione ad alcuni suoi presupposti di fondo, che non riesce però a concretizzarsi. I dubbi confinano col senso di agorafobia che si proverebbe a guardare un panorama sconfinato, senza più terreno sotto i piedi. A vederlo così, il mondo di «transizione permanente» in cui non si relega chi si ama in alcuna «definizione finale» è stupendo, liberatorio, basato com’è sulla scelta pura e sul diritto insindacabile di assumere, di volta in volta, l’identità (in Futuro interiore, 2016, definita una «maledetta parolina») che più si confà al proprio desiderio. Ma come tutte le utopie, può realizzarsi al di fuori di un contesto ideale in cui adulti consenzienti, in piena lucidità, scelgono il meglio per se stessi dedicandosi agli altri? Funziona davvero, se prima non viene normato e regolamentato il desiderio stesso? Non è detto che nelle famiglie, anche queer, l’autodeterminazione sia sempre possibile. Ci sono casi in cui semplicemente non si dà: o quando le parti in gioco non consentono sugli stessi punti (e allora la transitorietà sfocia nel conflitto, nella rottura del vincolo, e i problemi lasciati fuori dalla porta rientrano dalla finestra), o quando il soggetto non è in grado di autodeterminarsi. All’altezza di Tre ciotole, mesi fa, mi ero chiesto il perché della scarsa considerazione di Murgia per i bambini, ritratti come animaletti fastidiosi e poco più – secondo una visione, per una volta, non così minoritaria, ma in Italia molto più condivisa di quanto si scriva e si ritenga. Come i disabili gravi e le persone soggette a tutela altrui, i bambini non possono autodeterminarsi; e neanche il soggetto adulto, genitore o figura di cura che sia, può autodeterminarsi del tutto rispetto a loro, a meno che non rigetti ogni responsabilità individuale. L’antropologia e la pedagogia dell’opera di Murgia, invece, contemplano solo soggetti adulti, al massimo adolescenti: perché, laddove per i primi la realizzazione è in via di compimento o compiuta, per i secondi l’istanza di autodeterminazione è un motore dell’identità. Che idea reale di società si può costruire su queste basi?

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© Caleb Wood

Forse per questi motivi l’unico libro di Murgia con cui sento una vera sintonia è Accabadora (2009). Perché nella storia la piccola Maria, cresciuta dalla madre d’anima Bonaria Urrai, riceve un modello educativo dal quale viene in parte plasmata, poi lo combatte, lo respinge quando ne intuisce i risvolti perturbanti, infine dopo un percorso di autocoscienza dolorosamente lo assume superando la figura del genitore, a modo suo, e così definisce la storia della propria identità. Non c’è nessuna transizione permanente, qui: al centro, mai più con la stessa felicità, invece che la questione del “dare la vita” c’è quella non meno spinosa di “ricevere la vita”. Cioè di fare i conti con l’eredità non scelta di chiunque viene gettato nel mondo, e di capire come assumerla, come combattere con ciò che ci precede e ci viene impresso sulla pelle, al modo in cui nella Genesi Giacobbe sceglie di combattere per una lunghissima notte con l’angelo del Signore, pur senza possibilità di vincere.

Che tipo di scrittrice sarebbe diventata Murgia se nel prosieguo della sua vita avesse applicato con rigore il principio di autodeterminazione programmatico che in “Dare la vita” ha teorizzato?

Murgia non poteva non saperlo: la fluttuazione identitaria e personale è esaltante, solo fintanto che è propedeutica all’autodeterminazione. Presa da sola è dolore, smarrimento, caos. Nel rifiuto di «de(finirsi)» è difficile trovare la propria identità. Ma soprattutto, diventa impossibile creare la possibilità di una storia. La domanda che più viene da porsi, a chiusura di Dare la vita, è questa: nell’indeterminatezza assoluta come si fa a raccontare, a scrivere? Mi chiedo se sia legato a questa (da me presunta) impasse l’allontanamento progressivo dal romanzo di Murgia, il suo travalicare i confini della pratica della scrittura per andare verso quella, confinante ma diversissima, della comunicazione (e Tre ciotole, un manuale autobiografico mascherato da raccolta di racconti, è illuminante in tal senso), la trasformazione della sua pagina in un discorso insieme estremamente autoriferito e de-individuato, che indica una delle direzioni più affascinanti e rivelatorie della letteratura che verrà, e che sposterà gli equilibri di pubblico, linguaggio, mercato. Una domanda a cui, disgraziatamente, non possiamo più trovare risposta è, ai miei occhi, la più interessante: che tipo di scrittrice sarebbe diventata Murgia se nel prosieguo della sua vita avesse applicato con rigore il principio di autodeterminazione programmatico che in Dare la vita ha teorizzato?