Il nuovo romanzo di Ginevra Lamberti, Il pozzo vale più del tempo (Marsilio, 2024), si inscrive dentro un filone narrativo global, giovane ma consolidato, il cui peso nell’immaginario contemporaneo non va sottovalutato. Una sintesi rapida dell’avvio della trama fa capire di quale filone si parli. La piccola Dalia si risveglia, con ricordi confusi e profonde ferite, in un ospedale della pianura veneta, territorio-campione di una Terra precipitata nella distopia climatica, con conseguente regressione alla guerra totale. 

Il libro, quindi, ha paradossalmente uno dei suoi punti forti nella sua relativa mancanza di originalità, poiché va compreso entro lo scenario che possiamo chiamare delle “ultime persone sulla Terra”, il quale illustra per via di racconto, con le cadenze di un esperimento (nel senso in cui, a giudizio di Primo Levi, Auschwitz fu un gigantesco «esperimento» sulla natura dell’umano), cosa succede davvero quando si viene privati delle proprie condizioni materiali di benessere e si è posti di fronte alla possibilità dell’estinzione. Benché questo topos abbia una storia almeno bicentenaria, e una ripresa narrativa tutt’altro che trascurabile nel secondo Novecento italiano, negli ultimi vent’anni ha conosciuto una diffusione capillare. Complice, da un lato, la sua capacità di penetrazione transmediale, sullo schermo e in disegni, e dall’altro la sua traducibilità, con pubblicazioni americane che hanno fatto scuola (La strada di Cormac McCarthy in testa), la situazione di partenza si è riproposta in Italia con esempi da riscoprire (Il sogno dell’agnello di Paola Capriolo; Cinopolis di Marcello Benfante) e libri di un certo successo, più volte ristampati (Sirene di Laura Pugno; Nina dei lupi di Alessandro Bertante; L’uomo verticale di Davide Longo), fino all’esplosione degli ultimi quindici anni, con declinazioni malinconiche e autoriflessive (Le cose semplici di Luca Doninelli), pop (Anna di Niccolò Ammaniti), familiari e intimiste (XXI secolo di Paolo Zardi) oppure fiabesche (Bambini bonsai di Paolo Zanotti). Con una costante: l’attenzione non è più, come succedeva fino agli anni Settanta con Morselli e Volponi, sull’avverarsi dell’estinzione, temuta a parole eppure segretamente agognata, nella prospettiva di un solipsismo radicale e critico della modernità. Al contrario, le versioni contemporanee pongono la massima attenzione sul “post”. Attraversate da un’ansia palingenetica e sottilmente riformatrice, le nuove storie mettono in scena la resilienza umana; suggeriscono di abitare la crisi, invece che superarla o farsene inghiottire, e perdono in radicalità ciò che guadagnano in capacità di offrire soluzioni provvisorie. 

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La formazione della protagonista procede di pari passo con un elogio dei soggetti minoritari, tramiti di una saggezza “altra” che, si suggerisce, avrebbe in parte risparmiato all’umanità la catastrofe in cui è precipitata. In particolare le donne.

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