Il fermento poetico che anima l’Italia durante il secondo dopoguerra, e in particolare nell’arco degli anni Sessanta-Settanta, è noto. In questo periodo prendono vita le principali fasi che hanno portato all’apice la sperimentazione nel linguaggio. Anche l’immagine, compresa quella fotografica, sta vivendo trasformazioni analoghe. Si ricordino, ad esempio, le operazioni di Mimmo Jodice sul mezzo fotografico: “Vera fotografia” (1978) scritto a penna sulla stampa, o “Taglio” (1978), in cui la fotografia che ritrae una mano che tiene un taglierino viene effettivamente tagliata in linea con la lama. 

È in questo contesto che il lume di Giulia Niccolai (Milano, 1934 – Alassio, 2021) ha avuto modo di espandersi, prendendo forma e vita attraverso la fotografia, prima (dal 1958 al 1970 circa), e poi nella poesia.

Su Giulia Niccolai, di cui menzioniamo subito la lunga convivenza con Adriano Spatola – col quale fonderà la nota rivista «Tam Tam» – a Mulino di Bazzano, luogo divenuto all’epoca vero punto nevralgico della neoavanguardia poetica internazionale, è stato scritto tantissimo. Ce ne rende atto il numero 45 della rivista culturale «Riga» (Quodlibet) interamente dedicato a lei e in cui sono raccolte testimonianze, testi critici, interviste, saggi, e numerose poesie della stessa Niccolai (a cura di Marco Belpoliti, Alessandro Giammei e Nunzia Palmieri). 

Cerchiamo ora di seguire i due binari della sua vicenda, fotografica e poetica, provando a trovare i punti in cui si sono volontariamente o involontariamente toccati. 

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Giulia Niccolai nasce a Milano da madre statunitense e padre italiano, e già a otto anni sfoglia le pagine della rivista «Life» a cui la mamma era abbonata, innamorandosene. Nel 1958 diventa a tutti gli effetti una reporter professionista, documentando su commissione numerosi borghi italiani, prima, e poi la vita politica e cittadina degli Usa. Gli anni Cinquanta

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