La settimana scorsa sono stati annunciati i finalisti dell’edizione 2023 del premio Strega. La cosa deve interessarci oppure no? Parlare dello Strega considerandolo un indicatore autorevole o addirittura un arbitro del tutto attendibile dei valori letterari italiani non ha molto senso, perché il compito, il ruolo, la funzione di quel premio oggi non sono questi (né probabilmente lo sono stati mai). Ha senso invece discutere dello Strega come camera con vista sociologica sulla nostra idea del romanzo, e cioè della letteratura – avendo il romanzo (incluso naturalmente il non fiction novel e le scritture ibride, che anzi come vedremo sono in grande spolvero) assorbito quasi tutto lo spazio di quel che la polis oggi considera “letteratura”. Se quindi è futile strapparsi i capelli per questa o quella esclusione decisa dagli Amici della domenica – ogni grande scrittore scrive per sé, per dio o per i morti; se tiene troppo ai premi, e al giudizio di sei o settecento sconosciuti (molti dei quali verosimilmente non l’hanno neanche letto),  difficilmente sarà un grande scrittore – può invece essere utile partire dallo Strega per capire che senso hanno le inclusioni promosse dalla nostra istituzione letteraria più influente sul mercato della narrativa.

Da questo punto di vista, un bilancio della cinquina finalista comunicata ieri a Benevento è presto fatto. Quattro finalisti su cinque sono donne (come pure la sesta e la settima classificata); il solo di sesso maschile, Andrea Canobbio, è anche autore del più letterario, più lungo e tutto sommato più “scritto” dei libri in finale: tutti elementi che nella logica del premio lo rendono anche il meno competitivo e in parole povere il più debole. Se poi com’è doveroso andiamo oltre le carte d’identità degli autori e leggiamo i romanzi selezionati, e specialmente i primi tre in classifica (nell’ordine, Mi limitavo ad amare te di Rosella Postorino, Come d’aria di Ada d’Adamo e Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone) il messaggio forte e chiaro è che è arrivato il momento di valorizzare – perché già valorizzato nel discorso pubblico e nella chiacchiera sociale – non tanto “una scrittrice”, quanto “l’esperienza di una vittima”, che la scrittura ha il compito di cristallizzare e testimoniare. Perché l’altro elemento di omogeneità – anzi il principale, dal momento che coinvolge tutti i libri in cinquina – è la connessione con una o più “storie vere”, consegnate appunto alle testimonianze e agli archivi: un bisogno di autenticazione ormai consolidato, radicato quanto il nostro senso di colpa verso il dominio maschile (se non di più). Entrambi per essere soddisfatti avranno fatalmente bisogno di tempo, e altrettanto fatalmente dovranno attraversare – e farci attraversare – tanta letteratura furba, clonata e d’occasione (all’ombra dell’opera di una grande scrittrice come Annie Ernaux).

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