Meno sono letterari, i libri, più sembrano volerci spiegare a cosa serve la letteratura, o l’arte in generale. Mi è capitato di recente di leggerne diversi, per un impegno televisivo, di libri scritti da attori, musicisti, registi o consimili, e di trarne la costante pedagogica o euristica. Libri solitamente presentati come “romanzi”, che però ostentavano delle motivazioni esistenziali forti e delle esplicite finalità extraletterarie (ma allora perché “romanzi”, e non “testimonianze”?). Il primo caso, e il più (alla lettera) sintomatico, è quello di Elena Di Cioccio, che in Cattivo sangue (Vallardi, 2023) racconta i suoi vent’anni di HIV tenuto segreto, ovvero non condiviso con nessuno al netto degli amanti in carica (per un ostentato e talvolta masochistico senso di protezione). Improvvisamente, dunque, un segreto-segretissimo diventa materia esposta alla condivisione indifferenziata: non lo racconto solo alle persone a me care, ma potenzialmente a tutti, o a chiunque. La motivazione sarebbe solidale e pedagogica, appunto: voglio spiegare come ci si sente, voglio riunire attorno a me le persone che hanno lo stesso problema, voglio dimostrare che se ne esce con la forza di volontà. Funziona anche con libri più letterari, a dire il vero: è il caso dell’ultimo romanzo di Antonella Lattanzi (di cui ho già parlato in questo spazio), o di Maria Grazia Calandrone, già poetessa di nicchia (lo sono, in verità quasi tutti i poeti, se manco uno studente di Lettere saprebbe più fare il nome di almeno quattro o cinque viventi),

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