«Vado avanti a gomitate / Tra la gente che si affolla / Le patacche che ti ammolla quello là …». Canticchiava forse il successo di Baglioni di cinque anni prima per mettersi in guardia, mentre si faceva largo tra le bancarelle di Porta Portese? E quando entrava nella Libreria Maldoror, a due passi da piazza Navona, si sentiva più una Nadja romana o una segreta discepola di Breton?

Possiamo immaginare quella giovane americana, iscritta alla Rhode Island School of Design, a Roma dal maggio 1977 all’agosto ’78 per un anno di studio: vaga per le strade e le piazze; visita i mercatini; passa in rassegna espositori con vecchie cartoline o foto scattate da sconosciuti, scaffali su cui giacciono i volumi di una cultura fuori uso dopo la Seconda guerra mondiale, recuperata proprio negli anni Settanta, dalle avanguardie d’inizio Novecento alle visioni di Nietzsche, Céline o Pound ridiventate attuali.

La sensazione di averla davanti è un miraggio a cui ci hanno abituato le sue fotografie. Francesca Woodman – o almeno così possiamo pensarla mescolando realtà e fantasia – conquista i luoghi in punta di piedi, li attraversa come una ventata, fino a quell’ultimo salto da un palazzo di Manhattan il 19 gennaio 1981 a ventidue anni. Risolutamente leggera, sfuggente come appare in molti scatti eppure – questo lo sappiamo dalle testimonianze di chi l’ha conosciuta – presentissima, a sé stessa e agli altri.

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