Di recente mi è stata offerta l’opportunità di parlare della questione della violenza contro le donne in alcune scuole. Inizialmente, devo ammettere di aver esitato. Mi sono chiesto se fosse appropriato che fossi io, un uomo, a raccontare un’esperienza che riguarda principalmente le donne. Non sono solito credere che le questioni personali siano sempre legate alla sfera politica, ma ci sono situazioni in cui questo principio si dimostra senza dubbio valido. Allora ho riflettuto sul fatto che avrei potuto condividere ciò che conosco meglio, senza timore di spingermi in ambiti che non mi competono. Ho scelto di concentrarmi sugli uomini. Del resto, se c’è qualcosa di nuovo nel dibattito attuale sulla violenza di genere, è proprio l’emergente interesse verso la questione maschile. Sono i maschi ora al centro dell’attenzione quando si discute di casi drammatici di violenza, come i femminicidi.

Mi sono impegnato allora a leggere alcuni articoli scritti da uomini, presentati come prospettive intelligenti e consapevoli. Mi sono parsi una brutta copia di quella splendida canzone di Mia Martini che recitava: «Gli uomini non cambiano, / (…) ti uccidono / E con gli amici vanno a ridere di te». Dopo anni di lotte per sfatare gli stereotipi di genere, sembra che siamo ancora fermi alla retorica del “tutti gli uomini sono uguali in quanto maschi”, del “non esistono uomini progressisti”, o addirittura del “maschio come malattia da estirpare”.

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