Il collega inizia la relazione. Sullo schermo che ha alle spalle appaiono il suo nome, la sua università, il titolo (Stratigrafie manzoniane. Elaborazione e processi variantistici del «Natale») e poi subito, sbiadito per le luci della sala, il ritratto di Manzoni dipinto da Hayez (c’è pure l’indicazione esatta: olio su tela, 1841; Milano, Pinacoteca di Brera). Presto il ritratto sparirà, il PowerPoint farà apparire schemi, frontespizi di prime edizioni e stampe, pagine manoscritte; ma per ora, il quadro di Hayez è là, accompagna l’avvio del discorso. Lo conoscono tutti: anche se di Manzoni abbiamo un bel numero di ritratti, fra disegni, tele e fotografie, anche se a qualcuno resta in mente la figura sulla banconota da centomila lire, quello di Hayez è Manzoni per essenza, il corpo che riacquisterà il giorno del giudizio, quando, divelti i marmi del sacello nel Famedio, non dovrà neppure scavallare le gambe e alzatosi in piedi avrà gli stessi favoriti, la stessa calvizie mascherata dai capelli, lo stesso porro sulla fronte. È un bel quadro, mi è sempre piaciuto: cerco immagini nella memoria, apro google sullo smartphone. Hayez pittore storico o allegorico ha sempre qualcosa di chiassoso e di compromissorio, oscilla tra una didattica perbene e languori morbosi, viscontiani: medioevi di cartapesta, pronti per le copertine di CD operistici; malinconie, meditazioni e penitenze di Maddalene con i lunghi capelli neri in sospetto di untume e la mutria stinfia, a legittimare nudità poco risorgimentali; folle neoclassiche fra colonnoni scanalati e are fumanti… Con i ritratti, invece, sì che ci sapeva fare! Teresa Manzoni Stampa Borri, per restare in famiglia e fare da pendant, con la sua cuffia e il suo nastro celeste, Rossini, palesemente afflitto dalla dentiera e dal parrucchino, Cavour con lo sguardo semicancellato dagli occhialini e un principio di rictus al labbro inferiore, Matilde Juva Branca, regale con il suo ermellino e in posa da diva che ha appena attraversato una crisi di pianto…

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