Nell’immaginario paese di DF, l’onda dei femminicidi si sta alzando a livelli di guardia. Le polemiche rischiano di travolgere il candidato al governo Valerio Corti, politico di estrema destra indifferente alla questione, mascherato da padre di famiglia centrista e guidato dal “buon senso. Di comune accordo col suo spin doctor Marco Fumagalli decide di ritirare la candidatura: al suo posto, una donna-parafulmine, Marzia Rizzo. Dopo aver vinto le elezioni sarà lei, manovrata dal partito di Corti, ad affrontare il problema con una modesta proposta di legge “per la regolamentazione temporanea dell’attività venatoria speciale/straordinaria del femminicidio”: in base al decreto, l’uccisione delle donne viene regolata secondo precise norme igienico-sanitarie e con obiettivi di riequilibrio numerico e sostenibilità. Fra qualche mugugno di un’opposizione spompata e la protesta di un paio di voci della stampa, la caccia, nel rispetto di tutti, può avere inizio.

I mangiafemmine di Giulio Cavalli (uscito per Fandango nel 2023) appartiene a una tradizione premoderna e quasi completamente perduta: la satira letteraria

I mangiafemmine di Giulio Cavalli (uscito per Fandango nel 2023) appartiene a una tradizione premoderna e quasi completamente perduta: la satira letteraria. A quel genere riporta anzitutto un principio di trasparenza, che non maschera nomi, luoghi e fatti per renderli universali, ma insegue l’attacco frontale: Valerio Corti, con eleganza, buon senso e un dichiarato sorriso, occhieggia platealmente a Matteo Salvini (si provi a leggere con la sua voce questo stralcio di messaggio di Corti alle associazioni femministe: «A quelle donne non dico niente perché non ho niente da dire. Gli posso solo inviare il mio augurio, con il sorriso, di trovare cose più interessanti in cui affaccendarsi. Altri motivi per cui sudare»); lo spin doctor Marco Fumagalli, sessualmente irrisolto, ostaggio di una madre iperprotettiva e ricattatoria e quindi, per reazione, artefice di una campagna d’immagine ultra-aggressiva, corrisponde all’ormai eclissato Luca Morisi; e basta fare mente locale per capire a chi Cavalli alluda raccontando l’ascesa eterodiretta di una donna “moderata” al governo, per spazzare via sospetti di maschilismo con una mano e con l’altra offrire una politica ancora più repressiva e indifferente alle questioni di genere.

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Diversamente da quel tipo di romanzo realistico che in gran parte combacia con quanto si va pubblicando in Italia, la satira ha un rapporto elastico e privilegiato con la coerenza. Paradossalmente è più libera perché, in nome della bruttura sotterranea del reale che deve portare alla luce, vede la verosimiglianza come un intralcio. Diviso come il precedente Carnaio (2018), splendida e isolata variazione di Saramago in Italia, in due parti speculari intitolate I morti I viviI mangiafemmine ha un attacco vagamente kafkiano, a sua volta controbilanciato dall’entrata senza preamboli nella psicologia incravattata e segretamente mordace di un uomo che, nelle pagine seguenti, si dedica a molestare una collega e poi, esasperato per l’indagine interna che parte dal suo capo, ad ammazzare la moglie: «Tullio cominciò a trasformarsi in topo il 3 marzo. In pieno orario di ufficio, chino a ticchettare la tastiera del suo computer, fu interrotto dall’incaricata all’ordine. Chiamava così le donne delle pulizie perché riteneva inelegante qualsiasi altra definizione». Gli crescono i primi anelli della coda, cenni di bestializzazione del potere: ma lo spunto fantastico, che avrebbe potuto portare sul binario sicuro del weird, viene accantonato senza spiegazione e si passa a un’altra storia. Privata di inserzioni fantastiche, la prima metà di I mangiafemmine procede con la narrazione parallela della resistibile ascesa per procura di Valerio Corti, e di un cerchio di donne uccise che si stringe sempre più intorno a lui – tanto che la spinta a ritirarsi dalla corsa elettorale è data da un notaio che ha fatto a pezzi la moglie, per disgraziata fatalità, nello stesso palazzo dove ha sede il partito.

Sono innumerevoli i modi, gli sguardi e le posizioni da cui raccontare la violenza di genere: per esempio, tramite una visione manichea in cui i violenti appaiono come prodotti eterodiretti del patriarcato, spogliati di ogni umanità; è, fra le molte, la scelta più facile, e si rinviene in Gridalo (2020) di Roberto Saviano. Cavalli, anche lui a lungo sotto scorta per minacce mafiose, ha fatto quasi l’opposto. È chiaro, anche da una veloce ricognizione dei suoi interventi pubblici, che combatte apertamente, da tempo, contro una cultura strisciante della violenza di genere; ma in questo libro decide di raccontarla dall’interno, e si costringe ad abbandonare la posizione sicura, e fissa, di puro e semplice sgomento davanti al femminicidio. È difficile trovare argomentazioni fantastiche sulla legalizzazione dell’assassinio così apparentemente valide, e così congruenti a posizioni paranoiche e difensive che nel discorso pubblico reale tornano troppo spesso, come questa di Corti a Fumagalli: «ognuno di noi, anche tu ne sono certo, nella vita ha compiuto degli innocenti scherzi amorosi o è caduto in scatti d’ira che da un momento all’altro potrebbero cancellarti dal tuo ruolo. Ti sembra giusto? Ti sembra vivibile? Ti sembra possibile? Se c’è una guerra, noi maschi almeno abbiamo il coraggio di dichiararla. Quel decreto dice esattamente questo: avete voluto voi donne l’indipendenza e l’autonomia per esacerbare vigliaccamente il conflitto?». E non è forse un caso che la scelta di calarsi con ambiguità efficace in un mondo che, avendo finalmente accettato di essere cattivo, si scopre felice, venga da qualcuno che ha una formazione da cronista, se si pensa che un altro dei (davvero) pochi racconti satirici italiani di successo, uscito dieci anni fa, era I Buoni dello scrittore-giornalista Luca Rastello.

Sebbene I mangiafemmine insista sui resoconti, le autopsie e i particolari raccapriccianti, si è evitata la strada della ripetizione e dell’alienazione

Nelle polemiche seguite all’uscita de I Buoni, che attaccava frontalmente i lati bui delle ONG e (si vociferò) l’associazione Libera, Rastello si difese con un’argomentazione letteraria: dietro don Silvano, il capo carismatico e manipolatore dell’associazione del libro, aveva voluto mettere non don Ciotti ma se stesso. Ne I mangiafemmine si respira un’inclemenza affine. Alcuni si oppongono alla “caccia”, ma in prevalenza stanno dalla parte giusta per ragioni che non ci sembrano così esaltanti (Corti, velenosamente, nota dei partiti d’opposizione «si commuovono per le battaglie vinte ottant’anni fa perché dopo le hanno perse tutte»). Si levano alcune voci di protesta, che Cavalli fa sopprimere una a una con rapida meticolosità, come se dar loro spazio rischiasse di farle sembrare innocenti. L’unica figura di sfida al potere maschile, la giornalista Clementina Merlin (nome parlante, ispirato dall’omonima legge del 1958 che abolì la regolamentazione della prostituzione), è lontana dal risolversi in un’eroina. Segnata da fattezze respingenti, una cocciutaggine pesante, una vita grigia e fallimentare, a un certo punto si trova in mano le armi per provare a far cadere il governo. Ma per una crudele beffa involontaria, non ci riesce. E prima che la deriva autoritaria della “stagione di caccia” la stani, in fondo all’ultima pagina, insieme alla possibilità del bene, Merlin si dissolve.

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Nella Parte dei delitti di 2666 di Roberto Bolaño (modello di Cavalli) si dedicavano centinaia di pagine al rinvenimento e all’autopsia di giovani donne torturate, mutilate e uccise, della cui voce e storia nulla riuscivamo a sapere, conferendo un effetto di stanchezza che grondava un orrore difficilmente replicabile. Sebbene I mangiafemmine insista sui resoconti, le autopsie e i particolari raccapriccianti, si è evitata la strada della ripetizione e dell’alienazione. Ogni femminicidio è affrontato in una chiave espressiva differente, ha una precisa caratterizzazione di luogo, classe sociale, carattere. Dietro ogni pezzo di storia (in alcuni capitoli, in senso letterale e con un’allucinata amplificazione feticistica, dietro ogni pezzo di corpo) si individua la storia di ciascuna delle vittime.

La satira raggiunge il suo scopo. Che è quello di squadernare la cattiveria del mondo

Il gioco è rischioso, inevitabilmente. Rendere arte il femminicidio non è un’operazione a costo zero: e se in nessun punto del libro si vede anche solo l’ombra di un’assoluzione, o di un tentativo di giustificare, è conturbante ammettere che la partecipazione estetica alla violenza è un effetto voluto. L’effetto di ambiguità che questa semplice scelta tecnica comporta produce nel lettore una scissione che Cavalli non s’incarica di ricomporre. Così facendo, la satira raggiunge il suo scopo. Che è quello di squadernare la cattiveria del mondo. La storia di DF non è pensata per far ridere il lettore (è equivoco comune, alimentato da decenni di “satira” televisiva e cinematografica, che la satira debba essere divertente per funzionare). Nell’ultima parte del capostipite del genere, I viaggi di Gulliver (1726) di Jonathan Swift, Gulliver soggiorna nel paese dei cavalli sapienti Houyhnhnm, minacciati da umani rozzi e brutali chiamati Yahoo: e quando torna a casa sua, poiché non riesce più a non notare che sotto ogni umano c’è uno Yahoo con la sua ferocia stupida e il suo fetore, si adatta a vivere nella stalla. Dal lettore de I mangiafemmine, in piccolo, ci si aspetta lo stesso.

Giulio Cavalli, I mangiafemmine, Fandango, 2023.