«È impossibile trovare le parole per descrivere ciò che è necessario a coloro che non sanno ciò che significa l’orrore. L’orrore ha un volto. E bisogna farsi amico l’orrore… orrore, terrore, morale e dolore sono i tuoi amici. Ma se non lo sono, essi sono nemici da temere. Sono dei veri nemici». Con queste parole, il colonnello Kurtz in una delle scene finali del film Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, rilettura in chiave cinematografica del capolavoro di Joseph Conrad Cuore di Tenebra, spiega la sua posizione a chi era stato inviato per eliminarlo.
Se l’orrore ha un volto, deve avere anche una forma adeguata per essere comunicato. La forma è uno spazio, la forma è un vuoto, la forma sono i segni lasciati per testimoniare l’orrore. Mi sono sempre chiesto come può essere raccontato tutto questo attraverso l’architettura e lo spazio di una mostra, e, specialmente, se può essere raccontato e comunicato fino in fondo: non è importante infatti solo il racconto, ma la costruzione di una sensazione.
Le guerre producono l’orrore e gli architetti si sono trovati spesso a raccontarlo. Dopo la Seconda guerra mondiale, il gruppo di architetti BBPR ha provato a farlo due volte, la prima nel 1946, la seconda nel 1979: in entrambi i casi si trattava di mantenere vivo il ricordo dei caduti nei campi di concentramento. Il primo monumento, innalzato a Milano, oltre a essere la testimonianza della perdita di amici e colleghi come Pagano, Giolli, Labò e Banfi stesso (membro del gruppo BBPR), uccisi nei lager nazisti, è anche e soprattutto una dichiarazione dell’impegno morale necessario quando si pensa l’architettura. Il Memoriale italiano di Auschwitz del 1979 non serviva solo a ricordare ma anche a ricostruire un evento tragico, così come era è successo con il Monumento alle Fosse Ardeatine progettato a Roma nel 1949 da Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini e Nello Aprile, insieme alle opere d’arte di Mirko Basaldella e Francesco Coccia: entrambi i progetti sono una stretta collaborazione tra architetti e artisti.
Ma andiamo con ordine. Il primo monumento, composto da una struttura formata da tubolari metallici saldati e dipinti di bianco, disegna una griglia tridimensionale che nasce dall’intersezione tra le figure di un cubo e di una croce greca. La gabbia poggia a sbalzo su un basamento a croce che rafforza la leggerezza della parte superiore grazie alla forza della pietra e del marmo. Al centro della struttura circondata da filo spinato, è posta una gamella del lager contenente la terra di Mauthausen. Il tema del telaio tridimensionale è un dichiarato omaggio al Razionalismo ; la gabbia filiforme allude anche agli “oggetti prigionieri” di Alberto Giacometti e Fausto Melotti.
Il memoriale ad Auschwitz nasce invece dalla collaborazione tra lo studio BBPR, lo scrittore Primo Levi (autore del testo scritto su una targa all’ingresso del monumento), il pittore Mario “Pupino” Samonà, il regista Nelo Risi e il compositore Luigi Nono, oltre a essere descritto in modo esemplare ed evocativo da Lodovico Belgiojoso (anche lui deportato nel Lager di Mauthausen e sopravvissuto) con un testo scritto in occasione dell’inaugurazione.
Nel nostro progetto ci siamo sforzati di ricreare, allusivamente, un’atmosfera di incubo, l’incubo del deportato straziato fra la quasi certezza della morte e la tenue speranza della sopravvivenza, mediante un percorso che passa all’interno di una serie infinite di spire di una grande fascia elicoidale illustrata, che accompagna il visitatore dal principio alla fine. È l’idea di uno spazio unitario, ossessivo, realizzato con un ritmo di zone di luce e d’ombra che si alternano equidistanti fra loro, consentendo anche la visione, attraverso finestre, degli altri Blocchi del campo, visione altrettanto ossessiva.
L’allestimento è un percorso che attraversa una sorta di tunnel, formato da un dipinto, una spirale a elica che avvolge il visitatore, dove simboli, colori e segni rimandano all’orrore della Shoah. Mentre le parole di Primo Levi, rivolte al visitatore, echeggiano come un monito: «Per te e per i tuoi figli, le ceneri di Auschwitz valgano di ammonimento: fa che il frutto orrendo dell’odio, di cui hai visto qui le tracce, non dia nuovo seme, né domani né mai».
L’allestimento fu tolto dal Blocco 21 di Auschwitz, dove era stato installato tra il 1979 e il 1980 per volontà dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti), perché il museo polacco
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