Incontrare parole nuove in una lingua che magari so anche benino è un gran bel momento, e in un libro ben scritto la lingua è la plastilina con cui si modella un personaggio, si colora, gli si dà consistenza, materia, finché ci cade tra le dita, portato da quelle frasi. A volte brucia come una caldarrosta, altre vuole essere accarezzato come un cuccioletto, spesso è palloso che sembra sia stato messo al mondo per essere dimenticato in uno sbadiglio, fatto è che ci arriva per come ce lo hanno creato le frasi.

Wera, il personaggio principale di questo libro è una lingua. E questa lingua che è Wera è una donna imponente, molto forte, ha una fantasia materica per cui per indicare che sta da qualche parte a non fare nulla dice che si “impolvera”, ha la forza a cui la vita l’ha costretta, perché quando si deve sopravvivere a grossi traumi si screma, si riduce l’inquadratura, si perdono le descrizioni inutili e gli aggettivi si fanno densi e immediati, come le cose che contano, che alla fine sono ben poche. Non si fida di nessuno, non ci sono mai parole di circostanza, o ipocrisie. È una lingua in prima persona, perché lei è sola, di una solitudine che ha scelto, forse, o che le è cresciuta intorno, ma va bene così Alle spalle ha una vita complicata, che nemmeno conosciamo nel dettaglio, ma che ci arriva per un’amara irresistibile ironia che mi ha fatto sempre molto ridere, e fermare, e fotografare frasi che ho inviato a amiche, perché in quei momenti a Wera viene voglia di farle spazio, di condividerla, mentre lei è una che taglia le conversazioni di netto. La sua lingua funziona come la forbice da parrucchiera che tiene ancora sempre in tasca e che tira fuori quando c’è bisogno.

 Al primo appuntamento voleva davvero fare colpo e si vestì in maniera repellente. Si era tutto truccato di bianco. La sciarpa, color ciliegia e lunga come redini dorate, se l’era arrotolata quattro volte intorno al collo, a ferro di cavallo. Ero venuta da uno sportivo e qui, cristo, un puttaniere di Skierniewica.

Eccola, Wera. Wera che parla del marito, il Jockey, o Fantino, o Giochei (Dżokej), perché il polacco trascrive il suono inglese. E qui, così, giusto per condividere quel godimento sfriccicoloso, “puttaniere” in polacco si dice alfons. Come Alfonso. Cioè, è proprio un nome, non usatissimo, certo, ma del resto babbo Natale lo chiamano Mikolaj/Nicola, che una volta una mia amica entrò in casa, e prima di levarsi le scarpe si tolse dalla schiena un migliaio di borse e borsette, dopodiché, guardando la porta alle sue spalle mi disse “E ora arriva anche Mikolaj”, al che io scoppiai a ridere, perché mi era sembrata una battuta divertente, tutta questa roba e ora anche babbo Natale. Invece intendeva il marito. 

Che l’alfons si chiama Alfons invece me lo insegnò

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