L’Isola di Gorgona è irraggiungibile – anche se dista solo venti miglia da Livorno – e infatti era invocata da Dante, nel XXXIII canto dell’Inferno, perché insieme a Capraia facesse «siepe ad Arno in su la foce», così da annegare ogni persona di Pisa, «vituperio de le genti». I trasporti marittimi sono interrotti da tempo ed è severamente vietato avvicinarsi con barche private. È l’ultima isola adibita a carcere in Italia. Da circa centocinquant’anni i detenuti hanno la possibilità di lavorare la terra ed essere retribuiti. Arrivare all’Isola di Gorgona sulla Superba, motovedetta della polizia penitenziaria, insieme a poche decine di spettatori, è già di per sé un’esperienza, senza contare il “mare vecchio” della mattina, cioè le onde rimaste alte dal cattivo tempo del giorno precedente, che sembrano fatte apposta per introdurre allo spettacolo: Una tempesta, tratto da La tempesta di Shakespeare, per la regia di Gianfranco Pedullà con i detenuti in veste di attori.

Chi si aspetta di arrivare ad Alcatraz, dopo un’ora e mezza di navigazione, non ha capito nulla dell’isola. Il concetto è esattamente l’opposto. I detenuti sono liberi di stare all’aperto, di impegnarsi in molteplici attività. L’isola è rigogliosa, ha un piccolo molo d’attracco e, se non fosse per un’enorme scritta che campeggia sulla collina, «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato» (l’articolo 27 della Costituzione), sembrerebbe Portofino.

Gianfranco Pedullà,La tempesta di Shakespeare,teatro e carcere,Chiara Migliorini

La prima coincidenza con l’opera di Shakespeare è ovviamente l’isola. Prospero, duca spodestato di Milano, dopo aver vissuto dodici anni in un’isola deserta con la figlia Miranda, il selvaggio Calibano e lo spirito Ariel, usa i suoi poteri magici per scatenare una tempesta, far espiare al re di Napoli e al fratello Antonio le loro colpe, riacquistare il Ducato perduto e, dopo aver “provocato” il matrimonio della figlia con Ferdinando, figlio del re di Napoli, tornare a Milano. La scena iniziale si svolge sulla spiaggia con l’arrivo dei naufraghi e la presentazione dell’imponente Prospero, che indossa un costume colorato alla foggia un po’ del Papageno del Flauto Magico, un po’ della Venere degli Stracci di Pistoletto. Poi il pubblico, salendo per una stradina ripida in mezzo a casette colorate, arriva in una corte adibita a dimora del mago. Ed è qui che si svolge il maggior numero di scene che rispecchia chiaramente la storia raccontata da Shakespeare, senza attualizzazioni, ma solo snellita e recitata con l’uso alternato di lingua italiana e dialetto napoletano, secondo la traduzione che ne fece Eduardo. Ma perché scegliere, al di là della perfetta ambientazione, La tempestacome testo da far rappresentare ai detenuti della Gorgona? Il merito di Pedullà, che ha una lunga esperienza di teatro e carcere alle spalle, è di aver fatto funzionare al meglio la macchina del teatro, cioè di aver riattivato gli archetipi presenti nel testo, tramite la densa presenza degli attori detenuti. Nessuno parla di sé, della propria biografia, delle colpe e delle pene, della vita di prima e di quella del carcere, eppure tutta questa intensità riaffiora nell’interpretazione dei personaggi, a partire da quello che un tempo si chiamava physique du rôle.

I corpi muscolosi dei detenuti sono talmente pieni di tatuaggi che a volte sembrano quasi dei costumi sulla pelle

Calibano è un giovane tarchiato e muscoloso proveniente dall’Est Europa, l’unico con i capelli lunghi e ricci, e ha una notevole mimica capace di suscitare momenti di ilarità – come quando ricorda che veniva accarezzato, quasi fosse un cumulo di immondizia, dal padrone Prospero – e sentimenti di repulsione – quando Miranda (Anita Donzellotti, attrice professionista) gli urla in faccia tutto il suo disgusto, ricordandogli il tentativo di stupro, mentre lui le risponde col desiderio di avere tanti Calibanini e con la rabbia di aver imparato la sua lingua solo per maledirla. Il gruppo dei regnanti ha una notevole verve comica e anche per l’uso del napoletano (loro stessi sono napoletani) dà vita a divertenti siparietti alla Totò e Peppino. Ariel, interpretata dalla professionista Chiara Migliorini, è circondata da attori che la seguono nei gesti e nei movimenti come fossero un branco di pesci impigliati in una rete da pesca. Ferdinando è un giovane dal fisico statuario, che si presenta a torso nudo, lasciando a bocca aperta la figlia di Prospero. I corpi muscolosi dei detenuti sono talmente pieni di tatuaggi che a volte sembrano quasi dei costumi sulla pelle: nomi di figli, rose e fiori, volti di donne giovani, fidanzate e mogli, o di donne anziane, madri o nonne; appare sul bicipite di Calibano, nemmeno a farlo apposta, anche il volto di Che Guevara, nelle parti più coperte, si dice ci siano anche delle pistole tatuate.

Tutti i personaggi sono prigionieri di qualcosa, da Prospero a Calibano, da Ariel ai naufraghi

Scena dopo scena la Tempesta di Shakespeare emerge per quello che è, una sorta di parabola di liberazione. Tutti i personaggi sono prigionieri di qualcosa, da Prospero a Calibano, da Ariel ai naufraghi. Ognuno è rinchiuso in una prigione fisica, come l’isola, e psicologica, il desiderio di potere, di vendetta, di ribellione. E alla fine, grazie alle armi di Prospero, che sono le magie del teatro e della rappresentazione, scaturisce una sorta di perdono collettivo, coronato dal matrimonio dei due giovani – unica sottolineatura aggiunta dal regista –, e sembra finalmente ristabilirsi un equilibrio armonico. Il lieto fine ha qualcosa di misterioso e profondo, perché non riguarda solo lo sciogliersi dei nodi della trama, ma parla anche del potere del teatro di sciogliere i nodi intimi dell’umano di fronte all’immensità della vita, qui restituita nell’immagine conclusiva, di nuovo sulla spiaggia, nell’ammirazione del mare aperto con Prospero che guarda l’orizzonte. Sembrerebbe pronto a tuffarsi in acqua. La tentazione è forte, ma non lo fa, altrimenti la pena gli verrebbe prolungata di quarantacinque giorni, spiega durante l’incontro successivo allo spettacolo.

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L’attenzione al rapporto tra teatro e carcere è cresciuta negli ultimi anni. Alla Biennale di Venezia 2023 il Leone d’oro per il teatro è stato assegnato ad Armando Punzo, fondatore ormai trentacinque anni fa della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra. Al cinema il recente Grazie ragazzi di Riccardo Milani con Antonio Albanese ha recuperato la storia dell’attore svedese Jan Jonson che mise in scena Aspettando Godot con i detenuti. Mauro Pescio, nel podcast Io ero il milanese, narra la vicenda incredibile di un ex rapinatore che, con ancora molti anni da scontare, esce improvvisamente dal carcere. Affrontare il mondo della detenzione è molto complicato e le trappole del pietismo e della retorica sono dietro l’angolo. Però è una strada che, se percorsa seriamente e con continuità, apre incredibili squarci esperienziali, che arricchiscono anche il teatro. Il detenuto che diventa attore funziona come un acceleratore di realtà. Il suo corpo ha una evidente carica politica. La certezza della pena è come se lo investisse di una domanda permanente, che rivolge a se stesso e al pubblico che ha di fronte.

Pedullà, il regista, non è un Prospero totalitario, al contrario lascia vivere i personaggi sulla scena

Tra i numerosi e meritevoli esempi di teatro e carcere, questa esperienza di Pedullà, giunta al suo terzo anno alla Gorgona, colpisce per i tanti livelli messi in campo, culturali e pratici, ma soprattutto per aver dato spazio ai detenuti, sia nel momento della rappresentazione, sia nell’incontro con il pubblico. Pedullà, il regista, non è un Prospero totalitario, al contrario lascia vivere i personaggi sulla scena, e questo immediatamente fa scorrere dell’aria fresca. Lo spettacolo non ha paura di avere tutte le approssimazioni e le incertezze di un processo in corso. Ci si fida del testo di Shakespeare, che in effetti funziona come una formula magica. E lo sforzo di arrivare a innescare la macchina del teatro sorpassa gli errori e le paure di non farcela.

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