Mi è capitato spesso di pensare alla relazione tra arte e architettura, cercando poi di individuare uno spazio in cui l’arte si appropria dell’architettura e viceversa. 

Questo succede in due momenti distinti: nei luoghi in cui gli artisti producono e durante la costruzione del progetto, artistico o architettonico che sia.

Pensando ai luoghi mi viene in mente l’architetto Luigi Moretti, che nel 1965 è invitato alla mostra La Casa Abitata a Palazzo Strozzi a Firenze per presentare un modello ideale di spazio interno. L’architetto romano decide di trasferire nel museo il proprio studio di architettura. I tanti oggetti che lo compongono sono in gran parte opere d’arte. È come se tutte queste opere fossero necessarie per la costruzione del proprio immaginario, e quindi dei propri progetti. L’arte è per Moretti necessaria all’architettura, o forse l’architettura rappresenta per l’arte un luogo sicuro in cui può essere utilizzata come stimolo visivo alla creatività.

Se ripercorriamo la storia e l’evoluzione degli spazi di produzione, gli atelier, cominciamo a capire meglio il rapporto che nel corso del tempo si instaura tra le due discipline. Leonardo affermava la centralità di questi luoghi, mentre Michelangelo sognava di scolpire il fianco di una montagna, lo studio dell’artista per lui coincideva con lo spazio della natura, un’idea che fondeva paesaggio, arte e architettura. Uno strumento indispensabile per affrontare il viaggio alla ricerca di ciò che unisce le pratiche artistiche e le qualità spaziali dei luoghi deputati alla creazione è il libro Lo studio d’artista di James Hall. L’autore traccia una storia non convenzionale dell’atelier, ne descrive le caratteristiche e la vita al suo interno. Alcuni atelier li possiamo solo immaginare, altri visitare, come quello parigino di Alberto Giacometti – oggi ricostruito parzialmente in rue Victor Schœlcher –, che appare come un ambiente intimo, umile, con muri rovinati, disseminati di scarabocchi, uno spazio ingombro di attrezzi, di oggetti e di sculture, di basamenti in attesa delle figure filiformi condannate a una solitudine perenne; oppure l’atelier di Constantin Brancusi, sempre a Parigi, abitato da sculture che sembrano muoversi di continuo alla ricerca della luce, un movimento lento che solo oggi ha trovato nella ricostruzione museale a opera di Renzo Piano la sua immobilità.

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