Gira ancora oggi – a trent’anni dalla morte, il 16 marzo 1993, e a un secolo dalla nascita, il 12 maggio 1923 –, quasi come stigma che confina Giovanni Testori in una sorta di spazio degli incurabili, la battuta feroce che Pietro Citati non gli risparmiò quando lo scrittore, dopo la morte della madre nel 1977, si riavvicinò apertamente alla religione cattolica, dalla quale per altro non si era mai effettivamente allontanato, rimanendo fedele a una visione cristica della sua stessa scrittura. E la intese sempre come condivisione del destino sacrificale che incombe su tutti i viventi e in particolare sull’uomo fin dalla nascita, che per Testori veste sempre i panni dell’umiliato, del reietto, del disperato, del sofferente, senza mai darne una immagine rassegnata.

Citati, con cui si frequentavano almeno dall’inizio degli anni Sessanta, lo investì dunque di questo lapidario giudizio: «Caro Testori la conversione ha fatto male al suo stile». Oggi possiamo dire che Citati si sbagliava, Testori negli ultimi quindici anni di vita avrebbe prodotto anzi un’opera letteraria carica di un furore da “ultimi tempi” che lo proietta fra i grandi autori apocalittici del Novecento europeo.

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