Se pensiamo al Castello Sforzesco di Milano restaurato e trasformato in spazio espositivo dal gruppo BBPR nel 1956, non possiamo non essere coscienti che in questo luogo è custodita l’origine del museo italiano: l’attenzione dimostrata nella scelta dell’esposizione delle opere è ancora oggi riconosciuta e tenuta in considerazione nella museografia italiana come un grande inizio, tanto che non è possibile cambiarne l’allestimento per vincolo della Soprintendenza. Qualcosa però è cambiato. 

A chi interessano più i musei? O meglio quel tipo di musei. Sono passati circa ottant’anni e lo scenario che va configurandosi è una vera e propria fruizione della disattenzione: la visita al museo si riduce al dovere morale del turista di visitare una mostra. Le sale vengono percorse in velocità e spensieratezza, il godimento estetico si limita a una semplice percezione superficiale e la maggior parte dei lavori esposti viene sorpassata nella furia di raggiungere il capolavoro, l’opera-feticcio o, nel peggiore dei casi, il punto giusto in cui farsi un selfie. Addirittura aprono musei finalizzati a questo scopo, il museo come “danza selfica” con le braccia che misurano la distanza tra macchina e volto, il corpo che assume posizioni flessuose, il luogo che diventa scenografia, gli altri selfisti che formano un corpo di ballo: riprendersi con l’opera alle proprie spalle è oggi la forma di allestimento più diffusa. In questo modo la narrazione è svuotata di ogni valore artistico e diventa sfondo riproducibile all’infinito sui social network: immagini feticcio di un’arte da consumare con il semplice movimento di un dito. Un mondo che scorre a velocità sempre più accelerata, ovvero un flusso d’immagini difficili da arrestare e da comprendere.

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