Si è concluso da poco, presso la galleria di Roma Magazzino, un interessante progetto espositivo dal titolo Macchine inutili. Si tratta di un dialogo tra due giganti dell’arte, Gianni Colombo e Bruno Munari. Curato da Marco Scotini in collaborazione con Filippo Percassi, il progetto si concentra sulla capacità dei due artisti di aprire nuove traiettorie percettive della realtà. Le opere in mostra rivelano un processo di emancipazione di entrambi gli artisti dagli angusti confini della pittura, della scultura e dell’architettura. Le opere di Colombo e Munari trovano un terreno comune nell’idea di instabilità percettiva.
La percezione dello spettatore viene modificata e lo spazio viene partecipato, vissuto, abitato, diventando un elemento fondamentale dell’opera. Se, da un lato, la serie Negativo Positivo di Munari lascia lo spettatore libero di scegliere cosa vedere e cosa mettere in primo piano e cosa sullo sfondo, la serie Spazio Elastico di Colombo, invece disorientando il fruitore, lo rende parte attiva delle opere, grazie anche ai movimenti degli elastici visti attraverso la luce di Wood.
In entrambi i casi è chiaro come i due artisti siano stati mossi dallo stesso intento: lo studio dello spazio e della sua capacità di essere manipolato, di diventare esso stesso un’opera d’arte. Modificare la nostra percezione della realtà attraverso lavori che utilizzano tecniche e materiali semplici che rendono inutile l’orpello tecnologico, macchinico. È il tentativo di definire un possibile intervento di rottura rispetto alla nostra distratta e frivola osservazione delle cose. Munari e Colombo sembrano indicarci un sentiero dove ci si può spingere a cercare quello che c’è sotto, una volta esaurita la superficie.
Occorre abbandonare l’idea di un’organizzazione rigida della realtà e non farsi schiacciare, intrappolare nelle maglie della tecnica, nelle pieghe delle macchine. Ha qualcosa di magico,
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